Nomadismo

E’ un po’ di tempo che sto pensando di scrivere questo articolo, ma come spesso accade, per scrivere, si necessita di tempo per la riflessione e l’approfondimento. E’ quasi un anno che sto correndo nella compilazione di applications per borse di studio/lavoro internazionali e non.

Da quando alla mattina mi ritrovo 2 paia di scarpe in più da calzare oltre alle mie, la mia vita è cambiata radicalmente e rapidamente, e tutto quello che era prima, non è più ora. Le prospettive di futuro da giovane architetto si sono dematerializzate davanti alla reale condizione dei fatti. E bisogna essere sinceri, nel periodo storico in cui viviamo, la figura dell’architetto è superflua se non inutile. Non c’è futuro per la professione dell’architetto in Italia, ci sono più architetti in Italia, che in tutto il resto d’Europa. Lo venni a sapere già troppo tardi durante la fine dei miei studi universitari, quando mi capitò per mano un libro in cui venivano messi in evidenza i numeri di professionisti in Europa divisi per paesi. Ma questa è un’altra storia e magari se avrò tempo ne parlerò in un altro articolo.

Qui mi vorrei occupare di un piano molto preciso, quello di una fuga temporanea dall’Italia, al fine di acquisire nuove competenze, per reinserirmi nel mondo del lavoro, dopo 30 anni di studi, una Laurea, un dottorato di ricerca e numerosi anni di insegnamento a fianco di professori universitari a Firenze e a Parma. Niente di tutto questo è servito per una collocazione solida nel mondo lavorativo italiano. Probabilmente nemmeno il mio particolare carattere mi ha aiutato a fare una carriera da portaborse, come alcuni miei colleghi sono riusciti a fare comodamente.

Appena terminato l’unico progetto di architettura della mia vita, pluripremiato con il riconoscimento Opera Prima (e ultima, dico io) dalla Fondazione dell’Ordine architetti di Parma e Piacenza, selezionato tra le migliori 12 opere di architettura sostenibile dall’Osservatorio regionale dell’Emilia-Romagna e primo premio dal SAIE di Bologna, mi sono reso conto che il bilancio della mia attività non solo non avrebbe dato da vivere a me e ai miei figli, ma non avrebbe nemmeno dato da vivere a me.

Da alcuni anni, seguendo la mia personale passione verso le nuove tecnologie, mi guadagno da vivere sviluppando siti web di varie complessità, dal piccolo sito per il B&B al grande sito per la casa di produzione televisiva. Questa attività mi consente di lavorare da qualsiasi parte del mondo (o meglio da “nowhere”) e molto spesso i miei clienti li conosco unicamente tramite skypecalls ed emails.

L’esperienza del nomadismo penso sia qualcosa che abbiamo radicato tutti noi nella nostra natura e quando si esperisce tale modalità di vita, diventa molto difficile poter ritornare indietro.

Sto anche riflettendo che l’anno scorso, forse per aumentare la nomadicità incalzante, di comune accordo con mia moglie abbiamo acquistato un vecchio camper con cui possiamo spostarci a piacimento e posso lavorare da “nowhere”, a seconda delle preferenze mie o della famiglia. Ho anche in progetto l’installazione di un paio di pannelli solari sul tetto così da mantenere le batterie del camper (e dei laptops) cariche, aumentando perciò le potenzialità nomadiche.

Vorrei raccontarvi a questo punto del progetto “Erasmus for new Entrepreneurs” che mi ha consentito di svolgere un’esperienza importante di sei mesi in Svezia. E’ un programma di scambio internazionale europeo che consente di spostarsi per un massimo di 6 mesi all’interno dell’Europa, con l’obiettivo di acquisire quelle competenze necessarie allo sviluppo della propria impresa. Questo programma ha di certo un valore molto importante per chi cercasse di ampliare i propri orizzonti. L’application è molto semplice, o meglio, abbastanza semplice comparata ad altri programmi, ma ha alcuni meccanismi che non funzionano perfettamente. Difatti l’ostacolo maggiore è quello di trovare un partner europeo che sia disposto ad ospitare senza sfruttare il programma come puro scambio di lavoro a titolo gratuito. Superata la difficoltà del partner, il resto viene da se. Personalmente è stata un’esperienza significativa prima di tutto per migliorare le mie competenze linguistiche e poi per entrare in contatto con alcune realtà scandinave con cui vorrei collaborare in futuro.

Una seconda esperienza all’estero che attualmente non è ancora iniziata, è legata alla vincita di una borsa di studio Fulbright che spenderò in USA per un anno presso l’UCLA (in California). Questa candidatura è figlia dell’esperienza “Erasmus for new Entrepreneurs” precedente. Difatti, la fluidità nella lingua inglese e la volontà di non ritornare subito in Italia, visti i tempi che corrono, mi hanno spinto a compilare l’application per il programma Fulbright BEST. Questa application è durissima e interminabile. Se qualcuno avesse intenzione di farla, deve essere al corrente di questo e tenga anche presente che la mole di lavoro per l’application varia da uno a due mesi. Io l’ho fatta nei ritagli di tempo, con la convinzione che un’occasione prima o poi mi sarebbe capitata. Una volta inviata l’application, la Commissione Fulbright invita i candidati preselezionati ad un colloquio orale di approfondimento. Il colloquio si tiene davanti al “Board of Directors” della Commissione Fulbright composto da importanti esponenti italiani e americani (http://www.fulbright.it/en/chi-siamo/board-of-directors), ovviamente è in lingua inglese ed il tempo è prestabilito in dieci minuti: cinque minuti dedicati alla presentazione di un progetto imprenditoriale e cinque minuti di “domande scomode”. Quest’anno sono stati selezionati sette candidati in tutta italia. Ora sto organizzando vaccini, iscrizione definitiva all’UCLA e tante altri documenti per questa fuga in USA di settembre.

Saluto riprendendo una breve citazione a me molto cara di J.L. Borges che ha ispirato gli ultimi miei anni di vita:

Se potessi vivere di nuovo la mia vita.
Nella prossima cercherei di commettere più errori.
Non cercherei di essere così perfetto, mi rilasserei di più.
Sarei più sciocco di quanto non lo sia già stato,
di fatto prenderei ben poche cose sul serio.
Sarei meno igienico.

Correrei più rischi,
farei più viaggi,
contemplerei più tramonti,
salirei più montagne,
nuoterei in più fiumi.

Andrei in più luoghi dove mai sono stato,
mangerei più gelati e meno fave,
avrei più problemi reali, e meno problemi immaginari.

Io fui uno di quelli che vissero ogni minuto
della loro vita sensati e con profitto;
certo che mi sono preso qualche momento di allegria.

Ma se potessi tornare indietro, cercherei
di avere soltanto momenti buoni.
Chè, se non lo sapete, di questo è fatta la vita,
di momenti: non perdere l’adesso.

Io ero uno di quelli che mai
andavano da nessuna parte senza un termometro,
una borsa dell’acqua calda,
un ombrello e un paracadute;
se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero.

Se potessi tornare a vivere
comincerei ad andare scalzo all’inizio
della primavera
e resterei scalzo fino alla fine dell’autunno.

Farei più giri in calesse,
guarderei più albe,
e giocherei con più bambini,
se mi trovassi di nuovo la vita davanti.

Ma vedete, ho 85 anni
e so che sto morendo.

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